Uno degli osservatori più interessanti sul citizen journalism è il Center for Citizen Media affiliato tra gli altri con l’Università of California Berkeley, e con il Berkman Center for Internet e Society dell’Università di Harvard. Consultandolo frequentemente mi accorgo di come la rivoluzione digitale nei media e nella società sia una cosa viva, in continua evoluzione, un fiume che scorre e non smette di farlo, modellando il paesaggio intorno come capita per la nascita dei canyon.
A riprova di questo vi segnalo una lettura breve, ma molto interessante: “Sustainability in Citizen Media“, dove viene affrontato uno dei temi centrali con cui ogni iniziativa dal basso devo confrontarsi , cioè la sostenibilità economica. E se la domanda da cui si parte (“Perchè ci aspettiamo che ogni iniziativa debba essere sostenibile? Non c’è merito nel continuare a creare e diffondere migliorando di volta in volta?) è interessante, molto di più lo è la risposta.Dan Gillmor infatti spiega che la sostenibilità non vuol dire profittabilità o lunga durata almeno a livello individuale. Tuttavia bisogna evitare gli errori del passato, delle bolle speculative, e considerare che il perno su cui può girare in modo duraturo un ecosistema di citizen journalism è quello dei media tradizionali, i più adatti anche a creare nuovi progetti in questo campo.
Personalmente credo che un modello di business, tranne rarissimi casi, sia indispensabile per una long-term sustainability. E sentirlo anche da oltre oceano conforta. Pensare però che solo i media tradizionali possano creare strutture simili mi sembra, considerando il fermento di questi anni, limitativo